Depressione come “modo” di interpretare la realtà

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26 Gennaio 2018

Depressione come “modo” di interpretare la realtà

“La mia vita non ha piu’ senso…Sono assalito da una sensazione di stanchezza permanente e diffusa… Non ho voglia di fare nulla, di vedere nessuno… Ho perso addirittura interesse per quelle attivita’ che prima mi davano piacere, come le mie passioni, i miei hobbies, lo stare insieme agli altri… Mi sento stanco sin dalle prime ore del mattino e la notte fatico a prendere sonno.. Se guardo al passato posso dire di aver fatto solo errori e purtroppo ora non posso piu’ tornare indietro. Ormai e’ troppo tardi. Inoltre mi risulta impossibile pensare ad un futuro migliore… Sento che non posso fare nulla affinche’ le cose cambino…”.

Sul piano dei contenuti potremmo affermare che la persona “depressa” viene tipizzata in maniera concorde non solo dalla maggior parte dei terapeuti appartenenti a diversi orientamenti teorici, ma anche dalla psicologia del senso comune.
Quando si pensa ad una persona depressa si fa riferimento ad una serie di sintomi che possono essere cosi’ schematizzati:

  • umore triste e perdita di piacere nelle attivita’ abituali
  • difficolta’ di sonno
  • stato di apatia
  • sentimenti di autosvalutazione
  • difficolta’ a concentrarsi, a pensare o a prendere decisioni
  • pensieri ricorrenti di morte o suicidio

In qualita’ di psicologi come potremmo muoverci di fronte a narrazioni di stampo depressivo?
Secondo il mio punto di vista cio’ che dovremmo fare con le persone che si presentano e raccontano con una difficolta’, con un disagio, ma soprattutto con una “etichetta diagnostica specifica”, e’ offrire loro la possibilita’ di raccontarsi in modi altri rispetto a quelli utilizzati sino a quel momento. Potremmo cercare di depurare le persone dal linguaggio psicodiagnositco del quale sono state abbondantemente infarcite e tramite il quale si descrivono e riconoscono. Partendo dal presupposto che le persone non siano vittime impotenti dei propri mali ne’ succubi degli eventi che accadono (escludendo naturalmente tutti quei fatti su cui nessuno di noi puo’ essercitare alcuna forma di controllo, come le calamita’ naturali, i lutti, etc.), ma attori protagonisti e registi della propria vita, come psicologi clinici dovremmo preoccuparci di assolvere alcune funzioni principali come: l’interpretazione, la comprensione e la spiegazione dei processi mentali per poi influenzarli e modificarli tramite l’utilizzo di strumenti psicologici specifici; la confutazione e verifica delle ipotesi formulate ove cio’ sia consentito; infine dovremmo prendere le distanze il piu’ possibile dal modello eziopatogenetico proprio di altri saperi (come il modello medico-psichiatrico) che spesso riduce la persona ad una semplice etichetta diagnostica.

Potremmo concludere dicendo che come psicologi avremmo raggiunto buoni risultati se, al termine della terapia, il nostro cliente non si riconoscera’ piu’ solo e soltanto in una etichetta rigida ed immutabile, ma iniziera’ a prendere in considerazione modi diversi di interpretare la realta’ e di considerarsi in relazione ad essa.

Dott. ssa Nicoletta Filella